Mule Variations: ritorno del poeta alle radici


Il ritorno del poeta errante nella terra delle radici

Quando nel 1999 Tom Waits pubblica Mule Variations, il suo tredicesimo album in studio, il mondo musicale vive un momento di transizione complesso: il rock alternativo si sta dissolvendo in mille rivoli, l’hip hop conquista un ruolo centrale nella cultura popolare, il country tradizionale tenta di salvarsi dalla plastificazione del mainstream. In questo panorama incerto, Waits decide di tornare a ciò che conosce meglio, ovvero quella terra di confine dove convivono la tradizione rurale americana, i blues malconci da bar di periferia, le ballate notturne imbevute di malinconia e la poetica degli ultimi, degli emarginati, dei sognatori sconfitti.

Mule Variations arriva a sei anni di distanza da Bone Machine, disco oscuro e spigoloso, che aveva mostrato un Waits sperimentale, quasi ossessivo nel voler spogliare la musica fino al midollo. Con il nuovo lavoro, invece, l’autore sembra ritrovare una forma di equilibrio più umano, più terrena, pur senza rinunciare alla sua ricerca sonora. È il disco della maturità piena, quello in cui la sua voce diventa uno strumento totale, un ruggito scorticante e, allo stesso tempo, un sussurro colmo di tenerezza.

Non è solo un ritorno musicale: è un ritorno emotivo, narrativo, perfino spirituale. Waits sembra guardare indietro alla propria carriera e al proprio passato americano con uno sguardo più pacificato, seppur segnato da quella vena malinconica e ferita che gli appartiene da sempre. Mule Variations è il frutto di questa riconciliazione: un atto d’amore verso la canzone d’autore e verso un modo di raccontare storie che non ha bisogno di artifici, ma solo di onestà, polvere, fiato, cuore e un pugno di accordi da custodire gelosamente. 

Il quadro sonoro e l’estetica del country blues reinventato

L’identità musicale di Mule Variations è un miracolo di equilibrio. Waits costruisce un paesaggio sonoro che guarda alla tradizione americana — dal folk degli Appalachi al blues del Delta, dalla musica da strada alla ballata acustica — ma filtrandola attraverso una sensibilità modernissima, viscerale ed essenziale. Ciò che lo rende unico è il modo in cui combina strumenti convenzionali e rumori percussivi non ortodossi, mantenendo un suono naturale e analogico, quasi incarnato.

Il disco si apre con Big in Japan, un blues grottesco e martellante che riporta subito l’ascoltatore nel mondo dell’autore: chitarre sporche, fiati strozzati, una sezione ritmica che sembra costruita con ferraglia, e quella voce che tiene insieme lo humour e la disperazione. Ma è nei brani più sospesi che l’album rivela la propria anima. Hold On è una delle più grandi canzoni di Waits, una ballata classica, struggente, nutrita di speranza e disillusione. Qui il country blues incontra un lirismo maturo, quasi un gospel laico, che cattura l’essenza stessa del disco: fragilità, resistenza, amore e dolore.

Brani come Pony, Picture in a Frame o Georgia Lee portano invece alla luce il lato più intimo del musicista. Georgia Lee, forse il vertice emotivo dell’album, racconta una storia vera — la scomparsa di una bambina nella California rurale — con una delicatezza straziante. È una canzone che appartiene alla grande tradizione narrativa americana, quella che unisce Woody Guthrie, Johnny Cash e la letteratura della frontiera. Waits modella ogni verso come se lo stesse incidendo sul legno, con un gesto lento, doloroso e profondamente umano.

La produzione, condivisa con la compagna di vita Kathleen Brennan, è magistrale: asciutta, calda, senza sovrastrutture. Gli strumenti respirano, i silenzi parlano. Ogni fruscio, ogni vibrazione, ogni nota sembra nascere da una stanza di legno, illuminata da una lampada fioca. Mule Variations restituisce l’odore della terra umida, delle strade sterrate, delle notti in cui ci si chiede cosa sia andato storto e cosa valga la pena salvare. È un disco che non suona come un prodotto del 1999, ma come un oggetto senza tempo, scolpito con la cura degli artigiani di un’altra epoca. 

Testi, personaggi e mondi spezzati: la poetica del margine

In Mule Variations ritroviamo il pantheon tipico di Tom Waits: vagabondi, perdenti di provincia, innamorati che non sanno come dirsi addio, donne evanescenti come miraggi, uomini consumati da una vita di promesse mancate. Ma ciò che colpisce è la maturità con cui l’autore filtra queste figure, meno caricaturali che in passato, più radicate nella realtà, più vicine alla vita vera che alla mitologia personale del musicista.

La scrittura di Waits si muove tra il lirismo e il minimalismo. In Hold On il personaggio femminile è tratteggiato con pochi dettagli — una relazione logora, una fuga possibile, un abbraccio che resiste — ma la canzone diventa universale. È un inno a chi continua a trattenere qualcosa che si spezza, una delle più grandi ballate americane degli ultimi decenni.

In What’s He Building?, un monologo spoken-word che sembra emergere da un vicolo buio, Waits mette in scena la paranoia suburbana, l’occhio del vicino che spia, giudica, immagina mostri dietro porte chiuse. In questo brano la musica è quasi assente: è pura atmosfera, un teatro sonoro dell’ansia contemporanea.

La delicatezza di Picture in a Frame rappresenta invece l’altra faccia della poetica di Waits: un amore osservato come un oggetto fragile, un ricordo che vive dentro una cornice, protetto e allo stesso tempo inacessibile. È una canzone che vibra come un sussurro, che sembra portare con sé la calma di un mattino piovoso e l’intimità di un gesto quotidiano.

Il tema della perdita si fa ancora più evidente in Georgia Lee, brano in cui l’autore si confronta non con l’immaginario ma con la cronaca, raccontando la morte di una ragazzina abbandonata a se stessa. Qui la voce di Waits non interpreta un personaggio: è nuda, sospesa, colpita. La canzone diventa un atto di testimonianza, un’elegia civile che eleva il disco a un livello morale oltre che artistico.

Mule Variations è un bestiario umano, un’enciclopedia poetica di tutto ciò che Waits ama e teme: la fragilità dell’esistenza, l’ingiustizia, la povertà, la resilienza, il ricordo come unico rifugio. Ogni brano è un ritratto scolpito con cura, e molti di essi — almeno cinque o sei — sono destinati a diventare pietre miliari della sua discografia. 

Un corpus sonoro costruito con i sodali di sempre

Il suono di Mule Variations non sarebbe lo stesso senza la presenza dei collaboratori storici che accompagnano Waits da anni: Marc Ribot con le sue chitarre nervose e ipnotiche, Larry Taylor con il contrabbasso dal respiro blues, Greg Cohen, Charlie Musselwhite e una serie di musicisti capaci di reinventare la tradizione senza snaturarla.

La complicità tra Waits e Kathleen Brennan è il cuore creativo del progetto. Lei interviene nella scrittura, negli arrangiamenti, nella definizione di quell’estetica che unisce rumori metallici, strumenti acustici e atmosfere da folclore allucinato. Senza di lei — come l’autore stesso ha riconosciuto più volte — i dischi di Waits dagli anni Ottanta in avanti non avrebbero assunto quel carattere libero, inventivo e coraggioso.

La varietà dei brani non è mai dispersione: è un percorso emotivo coerente. Si passa dal blues abrasivo di Get Behind the Mule al romanticismo crepuscolare di Low Side of the Road, dal gospel distorto di Chocolate Jesus — satira religiosa e rito laico allo stesso tempo — alla devastante dolcezza di Take It with Me, che chiude il disco come una preghiera sussurrata a chi si ama davvero.

Questa ricchezza stilistica, che potrebbe sembrare eterogenea, trova invece un’unità sorprendente proprio nella voce e nella scrittura di Waits: è la sua presenza a tenere insieme tutto, come un narratore che attraversa paesaggi diversi senza perdere mai la propria identità. E ciò contribuisce a rendere Mule Variations un’opera non solo riuscita, ma indispensabile. 

Un’eredità incancellabile: il disco che suona ancora come la prima volta

A quasi trent’anni dalla sua pubblicazione, Mule Variations conserva una freschezza e un impatto emotivo che hanno pochi paragoni. Non è soltanto uno dei dischi più importanti della carriera di Tom Waits: è un’opera fondativa per chiunque ami la canzone d’autore, il blues, il folk, il rock raccontato attraverso storie vere e sentimenti non filtrati.

Il disco è struggente, elegante, duro e romantico. È disperato eppure vitale, come tutti i grandi lavori dell’arte americana che parlano dell’uomo, della sua fragilità, dei suoi sogni spezzati, ma anche del suo coraggio nel continuare a vivere e amare nonostante tutto. Waits firma un atto d’amore verso la musica, verso la tradizione e verso l’ascoltatore. Ogni traccia sembra dire: «Queste canzoni sono fatte per essere condivise, non per essere dimenticate».

Mule Variations è un forziere pieno di perle: canzoni che entrano nella storia personale di chi le ascolta e nella storia collettiva della musica americana. È un disco che chiunque ami il songwriting dovrebbe possedere, ascoltare, custodire gelosamente nella propria collezione. Perché contiene qualcosa che non appartiene alle mode né ai tempi: appartiene alla verità dell’esperienza umana.

Tom Waits, con questo album, non rinnova semplicemente la propria poetica: la perfeziona. Rende eterno ciò che è fragile, luminoso ciò che è spezzato, prezioso ciò che rischia di essere ignorato. Mule Variations è uno dei grandi capolavori del suo autore e uno dei dischi più belli che la musica degli ultimi cinquant’anni abbia saputo offrire. Un viaggio necessario, una carezza ruvida, un grido soffocato, una promessa di bellezza che continua a farsi sentire, ascolto dopo ascolto, come se fosse sempre la prima volta.

STREET LEGAL - RUBRICA MUSICALE DI DARIO GRECO

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