I capolavori del 1985 scelti da Street-Legal




11 album del 1985 selezionati da STREET-LEGAL

Il 1985 è stato un anno straordinario per la musica. Mentre il pop dominava le classifiche e MTV trasformava artisti in icone globali, molti musicisti pubblicavano dischi destinati a lasciare un segno duraturo. Alcuni hanno innovato i generi, altri hanno approfondito il loro stile con nuove sfumature, altri ancora hanno saputo coniugare radici e modernità con straordinaria naturalezza. La selezione dei migliori album che segue è stata stilata da Street - Legal, rubrica musicale curata da Dario Greco, e raccoglie alcuni dei dischi più significativi del 1985 scelti per la loro importanza artistica, l’impatto culturale e la qualità musicale.

Brothers in Arms – Dire Straits 

Con Brothers in Arms i Dire Straits toccano l’apice della loro carriera, realizzando un album che unisce ambizione artistica e successo commerciale come pochi altri nella storia del rock. Pubblicato il 13 maggio 1985, è stato uno dei primi dischi registrati e distribuiti in digitale, vendendo oltre trenta milioni di copie nel mondo. Ma al di là dell’aspetto tecnologico, è la musica a parlare con forza: elegante, atmosferica, ricca di dettagli, sospesa tra malinconia e grandezza epica. Il gruppo arriva al suo quinto lavoro in studio con una formazione stabile attorno alla figura centrale di Mark Knopfler, autore di tutti i brani e anima stilistica della band. Dopo l’uscita di David Knopfler e la sostituzione di Pick Whiters alla batteria, i Dire Straits trovano un nuovo equilibrio con l'ingresso del tastierista Alan Clark, dando vita alla formazione più longeva del gruppo. L’esperienza di Love over Gold aveva già spinto la band verso un rock sofisticato, con accenti jazz e progressive, e Brothers in Arms ne rappresenta la naturale evoluzione. Il disco si apre con So Far Away, brano notturno e disilluso, per poi esplodere con Money for Nothing, che diventa immediatamente un simbolo del decennio. Ironica, potente, costruita su un riff memorabile e con il cameo vocale di Sting, la canzone rappresenta una critica al mondo dello showbiz proprio mentre ne diventa parte integrante. Ma l’album non si esaurisce lì: Your Latest Trick incanta con i suoi fiati eleganti, Walk of Life è un inno spensierato e contagioso, mentre la title track, Brothers in Arms, è un brano di rara intensità emotiva, una ballata antimilitarista che si erge tra le migliori canzoni scritte da Knopfler. La produzione, impeccabile, avvolge ogni canzone in un suono caldo e preciso, amplificato dall’uso del digitale che regala nitidezza senza freddo distacco. Brothers in Arms è un disco che riesce a essere moderno e classico al tempo stesso, universale nei temi e personale nella voce.

Hounds of Love – Kate Bush

Kate Bush nel 1985 pubblica il suo capolavoro, un album diviso in due parti: la prima più pop e orchestrale, la seconda più sperimentale e onirica. Brani come Running Up That Hill e Cloudbusting dimostrano la sua capacità di raccontare l’invisibile attraverso la musica, mentre la suite The Ninth Wave porta l’ascoltatore in un viaggio quasi cinematografico tra sogno, morte e resurrezione. È un disco che sfugge alle etichette e che continua a ispirare artisti di ogni genere. Senza dubbio rientra nel novero dei capolavori e dei classici moderni a cui l'artista ci ha da sempre abituati.

Southern Accents – Tom Petty and the Heartbreakers

In Southern Accents, Tom Petty indaga le sue radici del sud con un approccio più ambizioso e sfaccettato. L’album alterna momenti di classic rock a episodi più sperimentali, senza mai perdere l’equilibrio. Il brano Rebels apre con forza, mentre Don’t Come Around Here No More, con il suo arrangiamento psichedelico, resta uno dei picchi creativi del gruppo. Southern Accents è una ballata dolente e profondamente evocativa, costruita attorno a un pianoforte semplice e struggente che accompagna una riflessione intima sull’identità e le radici del Sud degli Stati Uniti. Petty  riesce a catturare in poche strofe la complessità emotiva di chi si sente legato a una terra controversa, segnata da un’eredità difficile ma anche da un profondo senso di appartenenza. La sua voce, quasi rotta, restituisce tutta la fragilità di quel legame, rendendolo uno dei momenti più sinceri e poetici della sua carriera. Non è un inno nostalgico né una celebrazione cieca: è piuttosto un canto sospeso tra orgoglio, dolore e consapevolezza. È un album che guarda al passato con occhi nuovi e cerca un’identità tra mito e realtà.

Scarecrow – John Mellencamp

Con Scarecrow, Mellencamp consolida il suo ruolo di cantore dell’America profonda. È un disco fortemente politico e sociale, che parla di agricoltori, disoccupazione e sogni infranti. Le atmosfere sono asciutte ma potenti, e brani come Small Town e Rain on the Scarecrow colpiscono per sincerità e impatto emotivo. È rock di cuore e di terra, suonato con passione e consapevolezza.

This is the Sea – The Waterboys

Con This is the Sea, i Waterboys raggiungono il culmine del loro periodo "big music", un suono epico che mescola rock, poesia e spiritualità. Il brano The Whole of the Moon è il cuore pulsante dell’album, ma ogni traccia contribuisce a costruire un’atmosfera intensa e trascendente. Mike Scott canta con urgenza e visione, dando vita a un’opera che cerca il divino attraverso l’umano, l’infinito attraverso la canzone.

Little Creatures – Talking Heads

Dopo le sperimentazioni degli album precedenti, i Talking Heads tornano a sonorità più immediate ma non meno intelligenti. Little Creatures è un disco ironico, solare e contagioso, con brani come And She Was e Road to Nowhere che fondono folk, pop e surrealismo. David Byrne osserva la realtà americana con sguardo straniante e affettuoso, e riesce a rendere danzabili riflessioni esistenziali e spirituali.

Rum Sodomy & the Lash – The Pogues

Prodotto da Elvis Costello, questo secondo album dei Pogues è un’esplosione di folk irlandese, punk e lirismo ubriaco. Shane MacGowan canta storie di marinai, carcerati, amori sbandati e battaglie perse con una voce ruvida e poetica. L’arrangiamento acustico e tradizionale contrasta con la furia emotiva delle canzoni, creando un equilibrio perfetto. È un disco viscerale e malinconico, vivo come una ballata suonata in un pub alla chiusura.

Tom Waits – Rain Dogs

Rain Dogs è uno dei capolavori assoluti di Tom Waits, non solo del decennio ma dell’intera sua carriera. Pubblicato nel 1985 come secondo capitolo della cosiddetta “trilogia di Frank”, segna il punto in cui la visione sonora e narrativa dell’artista raggiunge una forma definitiva e inconfondibile. Lontano dai tradizionali canoni della canzone americana, Rain Dogs è un viaggio tra strade sporche, personaggi ai margini, malinconie urbane e grottesche ironie. Il disco fonde blues ubriaco, valzer stonati, marce militari e suggestioni da cabaret zigano, costruendo un mondo che vive di contrasti e poesia. È un’opera sporca e brillante, dove ogni rumore ha un significato e ogni strumento — dalle percussioni metalliche al banjo, fino al fisarmonica — contribuisce a creare un paesaggio sonoro unico e affascinante. La voce ruvida e teatrale di Waits guida l’ascoltatore in questo universo notturno, con una forza evocativa rara. Tra i brani più memorabili, Jockey Full of Bourbon apre con il suo ritmo sghembo e latino, Time commuove con la sua dolcezza tragica, Cemetery Polka diverte e inquieta con la sua ironia macabra, mentre Downtown Train e Hang Down Your Head mostrano un lato più accessibile e malinconico, con melodie struggenti e testi carichi di immagini poetiche. Hang Down Your Head in particolare è uno dei momenti più emotivamente intensi del disco. Qui Waits rinuncia alla dissonanza per abbracciare una struttura più lineare, costruita su un piano insistente e una melodia che resta in testa. È una canzone d’amore ferito, semplice ma potente, in cui la voce si fa più dolce e vulnerabile, dimostrando quanto il cantautore sappia essere toccante anche senza ricorrere ai suoi soliti trucchi teatrali. Con Rain Dogs, Tom Waits non solo afferma il suo stile, ma si impone come una delle voci più originali e importanti della musica americana. È un disco che non somiglia a niente e a nessuno, pieno di vita, malinconia, rumore e poesia. Un classico senza tempo.

Van Morrison – A Sense of Wonder

Con A Sense of Wonder, Van Morrison chiude idealmente un ciclo iniziato con Into the Music e proseguito fino a Inarticulate Speech of the Heart. Il disco, pubblicato nel 1985 in Italia, segna un momento di transizione profonda, sia dal punto di vista sonoro che tematico. Se da un lato riprende i motivi mistici e spirituali cari al cantautore irlandese, dall’altro introduce una nuova consapevolezza, più riflessiva, che troverà piena espressione nell’album successivo, il fondamentale No Guru, No Method, No Teacher del 1986. L’approccio di Morrison in questo lavoro ricorda la celebre frase di Yeats: “Correggendo le mie opere, correggo me stesso”. Il disco assume così il valore di un autoritratto spirituale, in cui il musicista rilegge la propria identità artistica attraverso un suono morbido e avvolgente, caratterizzato da una fusione di soul, jazz, folk e poesia. Morrison attinge in modo sempre più esplicito alla letteratura e al pensiero dei grandi poeti irlandesi, cercando un dialogo interiore tra parole, musica e trascendenza. L’influenza della poesia, della filosofia e della letteratura si fa sempre più esplicita: in brani come Let the Slave Morrison mette in musica le parole di William Blake, mentre in altri si avverte un desiderio crescente di connettersi con l’invisibile, con il mistero, con ciò che va oltre la percezione ordinaria. La musica diventa strumento di elevazione, non più semplice espressione emozionale. Le sonorità morbide, soul e jazzate, il timbro inconfondibile della sua voce, i fiati che fluttuano leggeri tra spiritualità e sensualità, contribuiscono a creare un’atmosfera intima, contemplativa, ma mai statica. A Sense of Wonder è il ponte verso No Guru, No Method, No Teacher, che uscirà l’anno successivo e segnerà uno dei vertici assoluti della carriera di Morrison. Ma già qui si intuisce che qualcosa è cambiato: l’autore non si limita più a cantare il mondo, ora vuole cantare l’anima.

Tears for Fears – Songs from the Big Chair

Con Songs from the Big Chair, i Tears for Fears firmano uno degli album più iconici e rappresentativi degli anni Ottanta. Pubblicato nel 1985, il disco segna un salto in avanti rispetto all'esordio The Hurting, sia per maturità compositiva che per ambizione sonora. Roland Orzabal e Curt Smith riescono a intrecciare pop raffinato, rock progressivo, elettronica e soul in un mix elegante e profondo, che conquista pubblico e critica. Fin dall’apertura con Shout, si percepisce l’intenzione del duo di alzare il livello emotivo e sonoro. Il brano, diventato subito un classico, è una potente dichiarazione di libertà, costruita su un crescendo ipnotico e un ritornello martellante. Ma è solo l’inizio. The Working Hour, malinconica e jazzata, racconta il conflitto tra ispirazione e costrizione sociale, mentre Everybody Wants to Rule the World, con il suo ritmo agile e la melodia perfetta, riflette sul potere e sulle sue contraddizioni, mantenendo un tono pop solare ma mai banale. Il cuore del disco è però Head Over Heels, una delle più belle canzoni d’amore degli anni Ottanta: romantica senza essere sdolcinata, melodica ma anche introspettiva. La produzione, curata nei minimi dettagli, non soffoca mai l’impatto emotivo delle canzoni, anzi lo esalta, grazie anche all’uso sapiente di sintetizzatori, chitarre e voci sovrapposte. Ogni traccia ha un’identità ben definita e contribuisce a creare un insieme coeso e visionario. L’album riesce a essere immediato e profondo, intimo e universale, con una coerenza rara per un disco pop. Non è solo una raccolta di singoli forti – che pure non mancano – ma un viaggio coerente dentro l’animo umano, tra fragilità e desiderio di cambiamento. Songs from the Big Chair è molto più di un successo commerciale. È un lavoro denso, maturo e sorprendentemente attuale, capace di parlare alla mente e al cuore. Un album che ha saputo cogliere lo spirito del tempo, superandolo con grazia e intelligenza.

Empire Burlesque - Bob Dylan

Pubblicato nel giugno del 1985, Empire Burlesque rappresenta uno dei capitoli più controversi e fraintesi della discografia di Bob Dylan. In un decennio dominato da sonorità sintetiche e produzioni patinate, Dylan tenta di coniugare la sua poetica con le tendenze musicali dell'epoca, affidandosi al produttore Arthur Baker, noto per il suo lavoro nel campo della dance e del remix. Il risultato è un album che mescola la profondità lirica tipica di Dylan con arrangiamenti tipicamente anni Ottanta, caratterizzati da sintetizzatori, batterie elettroniche e cori femminili. Nonostante le critiche iniziali, molti brani dell'album hanno resistito alla prova del tempo. Tight Connection to My Heart (Has Anybody Seen My Love), ad esempio, pur essendo stata criticata per la sua produzione, contiene testi ricchi di allusioni bibliche e cinematografiche, mostrando la capacità di Dylan di reinventarsi. Emotionally Yours, sebbene inizialmente sottovalutata, è stata rivalutata grazie alla sua reinterpretazione soul da parte degli O'Jays nel 1992. When the Night Comes Falling from the Sky e I'll Remember You sono altri esempi di brani che, se spogliati degli arrangiamenti dell'epoca, rivelano la loro forza compositiva. La traccia finale, Dark Eyes, si distingue per la sua semplicità acustica, offrendo un contrasto netto con il resto dell'album e ricordando al pubblico il Dylan più intimo e riflessivo. Questa scelta sembra quasi una dichiarazione d'intenti, un ritorno alle radici dopo un viaggio attraverso le sonorità contemporanee. Empire Burlesque può essere visto come un esperimento audace, un tentativo di Dylan di rimanere rilevante in un panorama musicale in rapido cambiamento.

Per concludere

Se si cerca un filo rosso tra i migliori dischi del 1985, lo si può trovare nel modo in cui tanti artisti, pur nella diversità di stili, hanno saputo coniugare introspezione personale e sguardo collettivo. Band come i Dire Straits, i Waterboys, i Pogues e i Tears For Fears, pur partendo da tradizioni musicali differenti, hanno dato vita a un suono che esplora il confine tra epica e quotidiano, tra nostalgia e tensione verso il nuovo. Allo stesso modo, autori come Bob Dylan, Van Morrison, Tom Waits, John Mellencamp e Tom Petty hanno continuato a scavare nella propria identità artistica, affrontando i mutamenti del mondo con parole autentiche e sonorità coerenti con le loro radici. Il 1985, più che un anno di hit, è stato un anno di profondità e transizione, dove la musica ha saputo essere specchio e guida, memoria e promessa. Classici del futuro, insomma!


- STREET LEGAL - RUBRICA MUSICALE DI DARIO GRECO -


Commenti

Post popolari in questo blog

Remembering Now: Van Morrison’s Testament of Light and Redemption

A proposito di Wildflowers di Tom Petty