A proposito di Wildflowers di Tom Petty
L’inizio di un lungo viaggio lungo gli States
L’America degli anni Settanta era un nastro d’asfalto che non finiva mai, l’autoradio sempre accesa, una generazione con il pollice alzato sui bordi delle highway e un sogno dentro gli occhi. Era il tempo in cui le chitarre parlavano per chi non trovava le parole, e su quelle stesse strade, tra il rumore di un mondo che cambiava, cominciò a risuonare una voce nuova. Un viaggio coast to coast dalla città natale di Gainesville, Florida per arrivare in California, a Los Angeles. Una fulgida chioma bionda, spettinata, lo sguardo da duro tipico segno distintivo da uomo tenace del sud che non si sarebbe mai fatto spezzare, Tom Petty non era solo un ragazzo con una chitarra, era un istinto, una scintilla che aspettava l’occasione giusta per divampare. A fare da scudo e armatura a questo gentile cavaliere del rock and roll troviamo una delle formazioni più toste, cazzute e coese di sempre: gli Heartbreakers, più una gang di amici con un ideale comune che una vera e propria formazione musicale di supporto al suo leader. Uomini di fiducia e talento che rispondevano al nome di Mike Campbell alla chitarra, Benmont Tench alle tastiere, Ron Blair al basso e Stan Lynch alla batteria, nella sua prima, originaria line-up. Il primo album venne pubblicato nel 1976 e passò quasi del tutto inosservato in America, ma dall’altra parte dell’oceano, in Inghilterra, qualcuno lo mise su una puntina e capì subito che c’era qualcosa di potente, che quel ragazzo aveva il fuoco dentro. Quando finalmente anche negli States si accorsero di loro, fu un terremoto: Damn the Torpedoes uscito nell’anno di grazia 1979, scalò le classifiche con Refugee e Don’t Do Me Like That. Gli anni Ottanta arrivarono con l’innovazione sonora del momento, ma nonostante Tom Petty non fosse esattamente un tipo da lustrini, synth e batteria elettronica, la sua musica riuscì ugualmente a imporsi. Del resto con il passare degli anni tutti i critici più autorevoli si resero conto dell’enorme potenziale di Petty in termini di scrittura e di creazione di brani epocali. The Waiting, You Got Lucky, Don't Come Around Here No More, Straight Into Darkness, Breakdown e l'epico racconto di American Girl erano brani di livello eccelso, che non potevano certo passare inosservati, un po’ per il loro potenziale pop, ma soprattutto perché raccontavano storie di perdenti ostinati, ribelli dal cuore spezzato, persi o no nei meandri dell’Heartland Rock di un Paese in crisi d’identità che tentava a fatica di ritrovare se stesso, dopo il Vietnam e prima dell’arrivo del reaganismo e degli yuppie di Wall Street. Poi, alla fine del decennio, arrivò il disco che lo consacrò tra i giganti, Full Moon Fever nel 1989 era un inno alla libertà, Free Fallin’ era il suono di chi sognava l’ovest con i finestrini abbassati e il vento nei capelli, I Won’t Back Down la promessa di non arrendersi mai, mentre Runnin’ Down a Dream è il manifesto perenne di chi non vuole smette di inseguire il proprio destino.
Giunse il momento di Wildflowers
Quando
Tom Petty pubblicò Wildflowers nell'autunno del 1994, aveva 44 anni ed
era a un bivio della sua esistenza. Stava per affrontare un doloroso divorzio
dalla moglie Jane Benyo, con cui aveva condiviso oltre due decenni di vita e
due figlie. Contemporaneamente, si trovava sull'orlo di una dipendenza
dall'eroina, un'ombra oscura che avrebbe potuto risucchiarlo. Eppure, nel mezzo
di questa tempesta personale, la musica fluiva da lui come mai prima: un'ondata
continua di ispirazione, brani che si scrivevano quasi da soli. Per due anni,
Petty visse in studio, accumulando così tanto materiale che inizialmente il
disco doveva essere un doppio album. Anche se molte canzoni sono rimaste nel
cassetto, quelle che compongono Wildflowers bastano per definire un capolavoro. Come
scrive Paul Zollo: Wildflowers è un disco splendidamente eclettico, capace di
sprizzare l’energia luminosa della creazione pura. Il titolo tradotto significa
fiori di campo, perfetta allegoria per questa coloratissima raccolta di brani
che sembrano scritti da soli, come se il loro autore si fosse limitato a dare
la scintilla, delicatamente. I veri fiori di campo non nascono dappertutto,
hanno invece bisogno di un terreno selvatico, per crescere liberi e rigogliosi,
un posto poco battuto, lontano dall’asfalto soffocante di città. Questo posto
speciale Tom Petty l’ha scoperto dentro di sé, e là dentro ha allevato più di
una ventina di canzoni scritte solo per questo album. Questo lo rende un lavoro
distante dalla coesione di Damn the Torpedoes e dalla brillante leggerezza pop di
Full Moon
Fever, ma porta con sé qualcosa di più profondo: il suono di un
uomo che si interroga su sé stesso. Dentro c'è la malinconia, la rabbia, la
rassegnazione, ma anche una certa speranza. Le sue sonorità spaziano dal blues
al country, dal folk al power-pop, e sono unite da un filo conduttore: il
viaggio, quello reale e quello interiore. Petty si guarda indietro, riflette,
cerca qualcosa dentro di sé. "Eri così figo al liceo", canta in
Crawling Back to You, prima di lasciarsi andare a un crudo interrogativo:
"Cos'è successo?". Nessuna poesia, nessuna risposta. Solo la nuda
verità. A differenza di molti suoi contemporanei, Petty non ha mai vissuto un
periodo di declino creativo evidente. Non ha attraversato un'era perduta come
Dylan negli anni '80 o Springsteen nei '90. Piuttosto, ha alternato momenti di
grande spinta a fasi di riflessione. Wildflowers è figlio di una di queste fasi, un disco
che si confronta con il peso della vita, con il rimpianto e con la
consapevolezza di essere a metà del cammino. E se non è celebrato quanto Time Out of
Mind di Bob Dylan o Harvest di Neil Young, è solo per una questione di
percezione storica: è un album altrettanto essenziale nella sua discografia.
Registrato con Rick Rubin, uno dei suoi produttori più importanti in quel
frangente, Wildflowers
è anche il disco più intimamente legato allo stato mentale di Petty. Se Jeff Lynne
aveva esaltato il suo lato romantico e pop nell'immortale Free Fallin',
Rubin ha messo in luce il lato più oscuro e disilluso. Qui ogni canzone ha una
svolta inaspettata: l'epico finale orchestrale di It's Good to Be King, ci restituisce
uno dei momenti più struggenti della carriera di Petty. Qui trovano spazio
anche le tipiche divagazioni parlottate tra un assolo e l'altro in "Honey
Bee"; il leggero tappeto di sintetizzatori in Time to Move On, che sembra
immergere il brano in un'atmosfera acquatica. You Don’t Know How It Feels, ad
esempio, nacque come una ballata malinconica prima di diventare un brano dal
ritmo ipnotico, con la batteria di Steve Ferrone in grande spolvero. Wake Up
Time, la traccia finale dell’album, è un addio alla giovinezza, un monito a non
lasciarsi trascinare dal passato. Ma nella sua voce c'è un calore paterno, come
se stesse offrendo a sé stesso e agli altri l'incoraggiamento di cui aveva
sempre avuto bisogno. “È ora di svegliarsi, di aprire gli occhi e risplendere”.
Ciò che rende Wildflowers così speciale è il suo equilibrio tra dolore
speranza, visto che anche nei momenti più cupi, Petty lascia sempre uno
spiraglio di luce. Rick Rubin ha raccontato che Petty, durante la realizzazione
dell'album, gli suonava le demo, per poi fermarsi di colpo e scrivere una nuova
canzone sul momento, ispirato dall'ascolto delle sue stesse parole. Era un
periodo in cui la musica sembrava prendere il controllo su di lui, quasi
un'ossessione. Anni dopo, Petty confessò al produttore di avere paura di
quell'album. Non a caso sua figlia Adria, ascoltandolo per la prima volta, capì
immediatamente che il matrimonio dei suoi genitori era finito. Wildflowers
è questo: un disco che trasuda emozioni crude, che non cerca di indorare la
pillola. Anche quando Petty sembra suggerire una sorta di illuminazione
spirituale, lo fa con ansia e impazienza. "Dobbiamo arrivare più in alto,
dobbiamo partire di notte". Sembra sempre che la risposta sia lì, a un
passo, nella prossima canzone, nella prossima strofa. Ma la verità è che non
esiste una risposta definitiva, solo il viaggio. E Wildflowers è il
diario di bordo di quel viaggio, un classico senza tempo, in cui Tom Petty si è
rivelato più che mai.
Considerazioni finali su Wildflowers
Detesto farlo, ma se dovendo selezionare dei singoli brani le mie scelte cadrebbero sul seguente gruppetto: Wildflowers, You Don't Know How It Feels, It's Good to Be King, Only a Broken Heart, Honey Bee, Hard on Me, Crawling Back to You e la conclusiva Wake Up Time. Otto brani la cui energia, vibrazione e poesia ti afferrano alla gola in una morsa senza tregua. In un’epoca dove i dischi contenevano un numero significativo di brani messi lì tanto per riempire, la qualità delle tracce selezionate da Rick Rubin, Tom Petty e dal fidato Mike Campbell, sanno più di miracolo che di semplice dichiarazione d’intenti. Non a caso la parabola artistica di Tom Petty non sarebbe finita così, visto che tra cadute, risalite e qualche colpo di coda di alta scuola, Petty ha continuato per altri vent’anni a produrre, scrivere e incidere dischi di indubbia sagacia ed eccezionale qualità artistica.
STREET-LEGAL Rubrica musicale di Dario Greco


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