A proposito di Wildflowers di Tom Petty


- Breve doveroso prologo  -


Scrivere un articolo dedicato a Tom Petty è un’incredibile emozione, per me. Ho scoperto la sua musica quando avevo poco più di vent’anni, restandone a dir poco folgorato. Tom Petty, la cui carriera discografica è meglio nota con la denominazione “Tom Petty & The Heartbreakers” è stato una costante tra i miei ascolti degli ultimi diciotto anni. Sono molto affezionato a un cospicuo numero di album, motivo per cui doverne scegliere soltanto uno per l’occasione, non è affatto facile, tutt’altro. Sedici album a cui bisogna aggiungere alcuni importanti lavori complementari, con band come “Mudcrutch” e “Traveling Wilburys”, senza poi dimenticare le produzioni realizzate per Johnny Cash e Chris Hillman, i brani scritti in collaborazione con Steve Nicks e Bob Dylan e tanto altro ancora. Eppure, malgrado ci abbia lasciati con un’eredità musicale, e un catalogo di prim’ordine, resta il rammarico e la sensazione che qualcosa di valido, Something Good Coming, per citare una sua canzone, sarebbe ancora potuto arrivare. Petty era in piena attività concertistica e stava per organizzare un evento speciale dedicato a Wildflowers, quando un’overdose accidentale di farmaci lo portò al decesso il 2 ottobre 2017. Questa tragica fatalità si è portata via uno dei migliori songwriters che il rock abbia mai avuto. Scelgo di scrivere di Wildflowers, perché lo reputo uno dei cinque-sei migliori dischi di Tom Petty, nonché uno dei gioielli pubblicati negli anni Novanta prodotti dal leggendario Rick Rubin. Se c’è una cosa che va riconosciuta a Tom Petty è l’abilità nel sapersi circondare da personalità eccentriche, ma dotate di grande talento: qualità determinante per la realizzazione di un grande album. Non è un caso se Petty è tra i pochi autori in grado di mettere assieme questa impressionante lista di artisti con cui ha lavorato: Bob Dylan, Roy Orbison, George Harrison, Jeff Lynne, David A. Stewart, Robbie Robertson e Rick Rubin. Lista a cui per completezza bisogna aggiungere producer quali Danny Cordell e Jimmy Iovine. Quest’ultimo in particolare grazie al quale Tom Petty farà il salto di qualità realizzando nel 1979 l’album Damn the Tordedoes. Ora però è tempo di riavvolgere il nastro, iniziando dagli esordi.

L’inizio di un lungo viaggio lungo gli States

L’America degli anni Settanta era un nastro d’asfalto che non finiva mai, l’autoradio sempre accesa, una generazione con il pollice alzato sui bordi delle highway e un sogno dentro gli occhi. Era il tempo in cui le chitarre parlavano per chi non trovava le parole, e su quelle stesse strade, tra il rumore di un mondo che cambiava, cominciò a risuonare una voce nuova. Un viaggio coast to coast dalla città natale di Gainesville, Florida per arrivare in California, a Los Angeles. Una fulgida chioma bionda, spettinata, lo sguardo da duro tipico segno distintivo da uomo tenace del sud che non si sarebbe mai fatto spezzare, Tom Petty non era solo un ragazzo con una chitarra, era un istinto, una scintilla che aspettava l’occasione giusta per divampare. A fare da scudo e armatura a questo gentile cavaliere del rock and roll troviamo una delle formazioni più toste, cazzute e coese di sempre: gli Heartbreakers, più una gang di amici con un ideale comune che una vera e propria formazione musicale di supporto al suo leader. Uomini di fiducia e talento che rispondevano al nome di Mike Campbell alla chitarra, Benmont Tench alle tastiere, Ron Blair al basso e Stan Lynch alla batteria, nella sua prima, originaria line-up. Il primo album venne pubblicato nel 1976 e passò quasi del tutto inosservato in America, ma dall’altra parte dell’oceano, in Inghilterra, qualcuno lo mise su una puntina e capì subito che c’era qualcosa di potente, che quel ragazzo aveva il fuoco dentro. Quando finalmente anche negli States si accorsero di loro, fu un terremoto: Damn the Torpedoes uscito nell’anno di grazia 1979, scalò le classifiche con Refugee e Don’t Do Me Like That. Gli anni Ottanta arrivarono con l’innovazione sonora del momento, ma nonostante Tom Petty non fosse esattamente un tipo da lustrini, synth e batteria elettronica, la sua musica riuscì ugualmente a imporsi. Del resto con il passare degli anni tutti i critici più autorevoli si resero conto dell’enorme potenziale di Petty in termini di scrittura e di creazione di brani epocali. The Waiting, You Got Lucky, Don't Come Around Here No More, Straight Into Darkness, Breakdown e l'epico racconto di American Girl erano brani di livello eccelso, che non potevano certo passare inosservati, un po’ per il loro potenziale pop, ma soprattutto perché raccontavano storie di perdenti ostinati, ribelli dal cuore spezzato, persi o no nei meandri dell’Heartland Rock di un Paese in crisi d’identità che tentava a fatica di ritrovare se stesso, dopo il Vietnam e prima dell’arrivo del reaganismo e degli yuppie di Wall Street. Poi, alla fine del decennio, arrivò il disco che lo consacrò tra i giganti, Full Moon Fever nel 1989 era un inno alla libertà, Free Fallin’ era il suono di chi sognava l’ovest con i finestrini abbassati e il vento nei capelli, I Won’t Back Down la promessa di non arrendersi mai, mentre Runnin’ Down a Dream è il manifesto perenne di chi non vuole smette di inseguire il proprio destino.

Giunse il momento di Wildflowers

Quando Tom Petty pubblicò Wildflowers nell'autunno del 1994, aveva 44 anni ed era a un bivio della sua esistenza. Stava per affrontare un doloroso divorzio dalla moglie Jane Benyo, con cui aveva condiviso oltre due decenni di vita e due figlie. Contemporaneamente, si trovava sull'orlo di una dipendenza dall'eroina, un'ombra oscura che avrebbe potuto risucchiarlo. Eppure, nel mezzo di questa tempesta personale, la musica fluiva da lui come mai prima: un'ondata continua di ispirazione, brani che si scrivevano quasi da soli. Per due anni, Petty visse in studio, accumulando così tanto materiale che inizialmente il disco doveva essere un doppio album. Anche se molte canzoni sono rimaste nel cassetto, quelle che compongono Wildflowers bastano per definire un capolavoro. Come scrive Paul Zollo: Wildflowers è un disco splendidamente eclettico, capace di sprizzare l’energia luminosa della creazione pura. Il titolo tradotto significa fiori di campo, perfetta allegoria per questa coloratissima raccolta di brani che sembrano scritti da soli, come se il loro autore si fosse limitato a dare la scintilla, delicatamente. I veri fiori di campo non nascono dappertutto, hanno invece bisogno di un terreno selvatico, per crescere liberi e rigogliosi, un posto poco battuto, lontano dall’asfalto soffocante di città. Questo posto speciale Tom Petty l’ha scoperto dentro di sé, e là dentro ha allevato più di una ventina di canzoni scritte solo per questo album. Questo lo rende un lavoro distante dalla coesione di Damn the Torpedoes e dalla brillante leggerezza pop di Full Moon Fever, ma porta con sé qualcosa di più profondo: il suono di un uomo che si interroga su sé stesso. Dentro c'è la malinconia, la rabbia, la rassegnazione, ma anche una certa speranza. Le sue sonorità spaziano dal blues al country, dal folk al power-pop, e sono unite da un filo conduttore: il viaggio, quello reale e quello interiore. Petty si guarda indietro, riflette, cerca qualcosa dentro di sé. "Eri così figo al liceo", canta in Crawling Back to You, prima di lasciarsi andare a un crudo interrogativo: "Cos'è successo?". Nessuna poesia, nessuna risposta. Solo la nuda verità. A differenza di molti suoi contemporanei, Petty non ha mai vissuto un periodo di declino creativo evidente. Non ha attraversato un'era perduta come Dylan negli anni '80 o Springsteen nei '90. Piuttosto, ha alternato momenti di grande spinta a fasi di riflessione. Wildflowers è figlio di una di queste fasi, un disco che si confronta con il peso della vita, con il rimpianto e con la consapevolezza di essere a metà del cammino. E se non è celebrato quanto Time Out of Mind di Bob Dylan o Harvest di Neil Young, è solo per una questione di percezione storica: è un album altrettanto essenziale nella sua discografia. Registrato con Rick Rubin, uno dei suoi produttori più importanti in quel frangente, Wildflowers è anche il disco più intimamente legato allo stato mentale di Petty. Se Jeff Lynne aveva esaltato il suo lato romantico e pop nell'immortale Free Fallin', Rubin ha messo in luce il lato più oscuro e disilluso. Qui ogni canzone ha una svolta inaspettata: l'epico finale orchestrale di It's Good to Be King, ci restituisce uno dei momenti più struggenti della carriera di Petty. Qui trovano spazio anche le tipiche divagazioni parlottate tra un assolo e l'altro in "Honey Bee"; il leggero tappeto di sintetizzatori in Time to Move On, che sembra immergere il brano in un'atmosfera acquatica. You Don’t Know How It Feels, ad esempio, nacque come una ballata malinconica prima di diventare un brano dal ritmo ipnotico, con la batteria di Steve Ferrone in grande spolvero. Wake Up Time, la traccia finale dell’album, è un addio alla giovinezza, un monito a non lasciarsi trascinare dal passato. Ma nella sua voce c'è un calore paterno, come se stesse offrendo a sé stesso e agli altri l'incoraggiamento di cui aveva sempre avuto bisogno. “È ora di svegliarsi, di aprire gli occhi e risplendere”. Ciò che rende Wildflowers così speciale è il suo equilibrio tra dolore speranza, visto che anche nei momenti più cupi, Petty lascia sempre uno spiraglio di luce. Rick Rubin ha raccontato che Petty, durante la realizzazione dell'album, gli suonava le demo, per poi fermarsi di colpo e scrivere una nuova canzone sul momento, ispirato dall'ascolto delle sue stesse parole. Era un periodo in cui la musica sembrava prendere il controllo su di lui, quasi un'ossessione. Anni dopo, Petty confessò al produttore di avere paura di quell'album. Non a caso sua figlia Adria, ascoltandolo per la prima volta, capì immediatamente che il matrimonio dei suoi genitori era finito. Wildflowers è questo: un disco che trasuda emozioni crude, che non cerca di indorare la pillola. Anche quando Petty sembra suggerire una sorta di illuminazione spirituale, lo fa con ansia e impazienza. "Dobbiamo arrivare più in alto, dobbiamo partire di notte". Sembra sempre che la risposta sia lì, a un passo, nella prossima canzone, nella prossima strofa. Ma la verità è che non esiste una risposta definitiva, solo il viaggio. E Wildflowers è il diario di bordo di quel viaggio, un classico senza tempo, in cui Tom Petty si è rivelato più che mai.

Considerazioni finali su Wildflowers

Detesto farlo, ma se dovendo selezionare dei singoli brani le mie scelte cadrebbero sul seguente gruppetto: Wildflowers, You Don't Know How It Feels, It's Good to Be King, Only a Broken Heart, Honey Bee, Hard on Me, Crawling Back to You e la conclusiva Wake Up Time. Otto brani la cui energia, vibrazione e poesia ti afferrano alla gola in una morsa senza tregua. In un’epoca dove i dischi contenevano un numero significativo di brani messi lì tanto per riempire, la qualità delle tracce selezionate da Rick Rubin, Tom Petty e dal fidato Mike Campbell, sanno più di miracolo che di semplice dichiarazione d’intenti. Non a caso la parabola artistica di Tom Petty non sarebbe finita così, visto che tra cadute, risalite e qualche colpo di coda di alta scuola, Petty ha continuato per altri vent’anni a produrre, scrivere e incidere dischi di indubbia sagacia ed eccezionale qualità artistica. 

STREET-LEGAL Rubrica musicale di Dario Greco 

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