Tom Waits: la trilogia che ha cambiato il volto alla canzone d'autore
Per comprendere davvero la trilogia che ha ridisegnato l’universo sonoro di Tom Waits – Swordfishtrombones (1983), Rain Dogs (1985) e Franks Wild Years (1987) – bisogna tornare agli anni immediatamente precedenti, quando l’artista californiano iniziava segretamente a smontare la macchina narrativa del proprio personaggio. La critica spesso immagina un taglio netto tra il vecchio Waits jazz-blues da bar notturno e il nuovo manipolatore di rumori, percussioni metalliche, arrangiamenti da cabaret post-industriale. Ma la verità, come sempre nel suo caso, è più complessa e più affascinante. Album come Heartattack and Vine (1980) e soprattutto la colonna sonora One from the Heart (1982) rappresentano infatti una zona di turbolenza stilistica, un corridoio di passaggio in cui qualcosa comincia a incrinarsi.
In Heartattack and Vine resiste ancora l’immaginario crepuscolare degli anni Settanta, con i suoi pianoforti logori e la voce da crooner sfondato, ma il tono diventa più duro, più aggressivo, più teatrale. Sembra di vedere un uomo che sta già cercando un’altra porta d’ingresso nella propria creatività. I personaggi sono più deformati, le atmosfere più tese, la violenza emotiva più esplicita. E poi arriva One from the Heart, che in apparenza sembra un ritorno alla dolcezza orchestrale, quando invece rappresenta un punto di rottura: il disco mostra un Waits consapevole del fatto che quel mondo elegante, da musical urbano, non gli appartiene più. È come se si osservasse dall’esterno, pronto a sabotare ogni sua precedente incarnazione.
Da quella faglia estetica nasce Swordfishtrombones: il primo passo della rivoluzione. Qui Waits scardina le convenzioni della forma-canzone che l’avevano reso celebre e abbraccia un universo fatto di tromboni spaiati, percussioni costruite con oggetti trovati, rumori di latta, derive espressioniste e improvvisi affondi lirici. È un disco che annuncia un linguaggio nuovo, che rifiuta qualsiasi abitudine dell’ascoltatore. È anche, in modo sorprendente, profondamente commovente. Waits non sta cambiando stile: sta cambiando pelle. E questa metamorfosi, iniziata in sordina nei lavori precedenti, trova compimento nei due album successivi, che porteranno la sua poetica verso un punto di non ritorno.
Rain Dogs e l’apoteosi del mondo (di)storto
Rain Dogs del 1985 rappresenta la vetta assoluta della creatività di Tom Waits, un’enciclopedia del bizzarro, un carnevale di diseredati, musicisti di strada, ubriachi, amanti feriti e fantasmi che si muovono in una New York immaginaria dove la notte non finisce mai. In questo album Waits riesce a fare qualcosa che pochissimi artisti hanno compiuto nella storia della musica popolare: crea un mondo autosufficiente, con leggi proprie e una geografia emotiva che continua a espandersi a ogni ascolto.
Il disco è una mappa di suoni imprevisti: tamburi battuti su casse di legno, marce funebri da circo dismesso, chitarre che sembrano arruginite, fisarmoniche da porto, un basso che pulsa come un animale in gabbia. Ogni brano è un cortometraggio, ogni voce un’ombra, ogni arrangiamento un cantiere aperto. “Clap Hands”, “Tango Till They’re Sore”, “Hang Down Your Head”, “Gun Street Girl”: sono canzoni che oscillano tra la ballata noir, il blues reinventato e il teatro dell’assurdo.
La grandezza di Rain Dogs non sta solo nella sua radicalità sonora, ma nella sua capacità di rinnovare la percezione dell’umanità marginale. Waits non racconta gli sconfitti del mondo con pietismo, né con romanticismo decadente. Li racconta come creature vitali, indistruttibili, a volte ridicole, a volte sublimi, dotate di una dignità sghemba che attraversa l’intero album. L’atmosfera è un miscuglio di ferocia e pietà, di tragedia e slapstick, come se Samuel Beckett incontrasse Kurt Weill in un vicolo di Manhattan.
Eppure, dietro la superficie abrasiva, c’è una scrittura melodica sorprendentemente delicata: Rain Dogs è un disco pieno di piccoli refrains memorabili, frasi spezzate che si insinuano nella memoria come briciole sparse da un narratore folle e lucidissimo. Da questo caos calibrato prende forma il vero cuore dell’opera: l’umanità come luogo incompleto, imperfetto, costantemente sul punto di crollare e proprio per questo vivo.
Franks Wild Years e il teatro come Destino
Con Franks Wild Years (1987) Waits compie un ulteriore passo nella propria trasformazione: la forma-canzone non è più solo un contenitore di storie, ma diventa teatro. L’album nasce come colonna sonora di uno spettacolo messo in scena con la moglie Kathleen Brennan, ed è infatti costruito come un viaggio allucinatorio nella mente di un personaggio che potrebbe essere tanto un attore in disfacimento quanto un alter ego dello stesso Waits. Il disco è un mosaico dove convivono momenti orchestrali, marce disarticolate, valzer stonati, ballate crepuscolari e improvvisi lampi di elettricità nervosa.
Se Rain Dogs è una città, Franks Wild Years è un teatro in rovina, con tende logore, luci intermittenti e una compagnia di attori che recita come se fosse l’ultima notte della stagione. Waits canta come un ventriloquo, cambia voce da brano a brano, talvolta con registri quasi caricaturali, talvolta con una dolcezza imprevedibile. Le melodie sono più spezzate, più concettuali, eppure al centro troviamo alcune delle sue composizioni più poetiche.
È un disco che lavora per sottrazione emotiva: le canzoni si presentano come oggetti solitari, frammenti di un monologo più grande. L’intero lavoro sembra ruotare intorno alla fragilità del sogno americano, visto non come promessa mancata ma come teatro di ossessioni minori. Waits costruisce una mitologia capovolta, abbassata di tono, popolata da illusionisti falliti, viaggiatori stanchi, uomini che cercano un senso nel rumore delle proprie derive. È un album di grande audacia, che alterna minimalismi spiazzanti a esplosioni di colori che sembrano uscire da una fiera di periferia.
All’interno dell’opera omnia della trilogia – e più in generale della produzione di Waits negli anni Ottanta – alcuni brani meritano un’attenzione particolare perché incarnano, ciascuno a modo proprio, l’essenza di questa trasformazione stilistica e tematica.
“Temptation”, contenuta in Franks Wild Years, è una canzone che vive sul confine tra musica e teatro. Waits la interpreta come un attore che si diverte a imitare la propria stessa voce, deformandola, stirandola, facendola vibrare su una melodia ipnotica, quasi orientaleggiante. Il brano è un quadro in movimento: parla di desiderio, di rovina, di quella linea sottilissima in cui il peccato diventa un rifugio. È una danza macabra e sensuale, dove la tentazione non è un nemico, ma un luogo in cui l’anima si specchia per capire cosa è rimasto di sé.
“Innocent When You Dream” appare in due versioni (una orchestrale, una più asciutta) nello stesso album, e rappresenta l’altro polo emotivo del disco. È la ninnananna di un clown triste, una canzone che sembra uscita da un carillon arrugginito: ironica, tenera, spaventosamente fragile. Waits canta come se avesse in braccio un ricordo più che una persona, e lo facesse oscillare sperando che non svanisca. È una delle sue melodie più semplici e più struggenti, un inno alla memoria come unica forma di innocenza possibile.
“Yesterday Is Here”, da Franks Wild Years, è il brano che sintetizza meglio la poetica del cambiamento. La canzone parla del futuro con un fatalismo quieto, come se il domani fosse un quartiere che nessuno ha più voglia di visitare. “If you want money in your pocket, and a top hat on your head…”: l’ironia di Waits qui è sottile e devastante. Il tempo è un animale che non puoi addomesticare; puoi solo accettare che ciò che eri ieri non tornerà mai più.
“Telephone Call from Istanbul”, da Franks Wild Years, è un frammento di caos controllato. Un pezzo frenetico, pieno di sorprese linguistiche, come una cartolina da un mercato affollato in cui uno straniero racconta cose impossibili. Waits gioca con la parola, con il ritmo, con l’assurdo narrativo. Sembra improvvisare, ma la struttura è in realtà calibratissima: un’irruzione di vita pura.
E poi c’è “Cold Cold Ground”, uno dei gioielli assoluti del disco. Qui Waits abbandona la sua maschera teatrale e canta con una sobrietà che trafigge. È una ballata nuda, fatta di attese, disillusioni, quella rassegnazione che arriva solo quando hai visto abbastanza notti da non averne più paura. Il brano è un esercizio di sottrazione: pochi accordi, pochissime parole, ma un mondo emotivo che si apre come un libro segreto.
La trilogia come festa demolita e rinascita
Guardando oggi all’intera trilogia – Swordfishtrombones, Rain Dogs e Franks Wild Years – ciò che emerge non è soltanto un cambiamento di stile, ma una trasformazione identitaria. Tom Waits non si limita a reinventarsi: distrugge il proprio vocabolario musicale e ne costruisce uno nuovo usando materiali di recupero, frammenti di teatro dell’assurdo, rumori di strada, echi di Kurt Weill, blues mutilati e melodie sgangherate che finiscono sempre per trovare un punto di bellezza inatteso.
Questa trilogia è la storia di un artista che ha smesso di accontentarsi del proprio mito per inseguire un’immaginazione più vasta, più pericolosa e più libera. È un laboratorio permanente, una festa demolita dai cui detriti nasce un nuovo linguaggio. Ogni album è un capitolo a sé, ma insieme raccontano un’unica storia: quella di un uomo che decide che la coerenza è sopravvalutata, e che l’unica fedeltà possibile è verso la propria inquietudine creativa.
Ed è forse per questo che, a quasi quarant’anni di distanza, queste opere continuano a generare ascoltatori devoti: non perché siano perfette, ma perché sono vive. Imperfette, claudicanti, orgogliose del proprio disordine. Come tutti i grandi personaggi di Tom Waits, che, anche quando cadono, lo fanno con stile.
E alla fine Frank resta lì, tra le tende logore del suo ultimo teatro
Riascoltato oggi, Franks Wild Years somiglia a uno di quei vecchi cinema di periferia che non esistono più, dove le luci al neon tremano e il vento fa sbattere le porte anche quando il film è finito da un pezzo. È un disco che non ti prende per mano: ti fa entrare dalla porta laterale, ti accompagna dietro le quinte e ti lascia da solo in mezzo ai costumi sfatti, alle maschere rotte, alle promesse che non hanno fatto in tempo a diventare ricordi. Eppure c’è qualcosa di irresistibile nella sua fragilità ostinata, come se ogni pezzo fosse una scena di un monologo che Frank pronuncia solo quando è sicuro che nessuno lo stia guardando. Waits qui non costruisce un personaggio: lo lascia marcire, crescere, delirare, respirare, e nel farlo ci ricorda che la grandezza non è nella coerenza ma nelle crepe. Franks Wild Years è un disco che non vuole piacere: vuole restare. E resta, ostinatamente, come un’eco lontana di un teatro che non c’è più ma che continua a bruciare dentro chi ha avuto il coraggio di attraversarlo almeno una volta.
| STREET-LEGAL RUBRICA MUSICALE di Dario Greco |


Commenti
Posta un commento