Van Morrison, l'importanza delle voci dimenticate

Nel mare agitato della musica moderna, Van Morrison ha sempre navigato su una rotta tutta sua. Con l’ostinazione dei poeti e il cuore dei predicatori, ha seguito il suono delle anime dimenticate, quelle che non fanno notizia ma hanno ancora qualcosa da dire. C’è un filo sottile che attraversa la sua opera e che spesso passa inosservato: Van è uno di quei rari artisti che non dimenticano mai chi è rimasto indietro.

La sua discografia è piena di voci rievocate, citate, invitate, rimesse al centro, non per nostalgia ma per una forma profonda di giustizia musicale. Tra tutti i nomi, uno risalta in modo particolare: P. J. Proby, cantante texano dalla voce possente e dalla carriera travagliata, emblema stesso del talento che brucia troppo in fretta. Negli anni Sessanta era un fenomeno, ma il suo stile istrionico, le intemperanze, le scelte sbagliate e la stampa ostile lo spinsero presto ai margini.

Eppure, nel 2002, Van gli dedica una canzone: Whatever Happened to P. J. Proby, contenuta nell’album Down the Road. È una ballata dolce e inquieta che si chiede che fine abbiano fatto certi artisti veri, che vivevano la musica senza filtri, prima che lo spettacolo li divorasse. Ma Van non si limita a porre la domanda. Tredici anni dopo, nel 2015, la risposta arriva in musica: nello splendido Duets: Re-Working the Catalogue, Morrison chiama Proby e canta quella stessa canzone insieme a lui.

Il risultato è sorprendente: due voci che si rincorrono, si sfidano e si comprendono, come se si conoscessero da sempre. Non è un’operazione malinconica, non è un revival: è una resurrezione artistica. In quel momento, Proby non è più un nome scomparso dai radar, ma una presenza viva, reale, necessaria. Van gli restituisce uno spazio, ma non per pietà: perché lo merita.

E non è un caso isolato. In Duets, Van Morrison coinvolge artisti con storie simili, voci che hanno vissuto più di quanto abbiano venduto: Georgie Fame, Chris Farlowe, Clare Teal, Mavis Staples, Taj Mahal, Bobby Womack. Alcuni celebri, altri dimenticati, tutti unici. È come se Morrison volesse salvare un’intera genealogia musicale prima che scompaia, dando spazio a chi il tempo ha lasciato ai bordi della strada, ma che la musica – quella vera – non ha mai smesso di ascoltare.

Il suo è un atto di fedeltà alla memoria sonora, un modo per dire che la musica è fatta di persone, storie, imperfezioni. Che il talento non scade. Che le voci non muoiono, se qualcuno le chiama. Van Morrison è da sempre allergico al culto dell’effimero: non gli interessa cavalcare le tendenze, quanto scavare dove il suono è più profondo, anche se non luccica più.

Ogni volta che Van recupera un nome dimenticato, lo fa con la precisione del rabdomante e la pietas dell’uomo che conosce il valore del silenzio. Non per costruire un monumento, ma per ridare voce a chi ancora ha qualcosa da cantare.

E a me, che ascolto Van Morrison da qualche anno, questa cosa commuove. Mi fa sentire parte di un mondo che non ha bisogno di classifiche, ma di riconoscere i propri fratelli nel suono. Quando sento cantare Van e P. J. Proby insieme, sento una promessa mantenuta. Come se, anche nel rumore del presente, ci fosse ancora un posto per chi non ha mai smesso di cercare la propria nota.

STREET-LEGAL - RUBRICA MUSICALE DI DARIO GRECO

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